“Asha, un anno, indiana, porta legato in vita un cilindretto di metallo che potrebbe interferire con la risonanza magnetica, ma sua madre non ha nessuna intenzione di slegarlo: contiene sangue di capra consacrato. Fatima, bambina Rom di 6 anni, vive in un campo nomadi nella periferia di Roma e si occupa tutti i giorni della sorella di 3 anni e del cugino di 4 anni. Rose ha 21 anni, immigrata del Ghana 2 anni fa e vorrebbe svezzare il figlio Alex con il couscous” (Gesualdo et al., 2012).
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Quotidianamente siamo a contatto con la realtà di bambini migranti che trovano sosta nel nostro Paese, eppure le loro storie rimangono taciute. Storie che si intrecciano in modo continuo, passano in sordina, rimangono inascoltate, non narrate e vissute solo da chi assiste mamme, bambini, adolescenti e uomini che cercano un rifugio, a volte solo un approdo in Italia.
Sono i “bambini Ulisse”, sopravvissuti a viaggi estenuanti, traumatici, faticosi e a volte con una meta diversa da quella sperata, a volte con genitori o figure di riferimento, altre volte non accompagnati (Devi, 2017).
L’esperienza del peregrinare per mesi in condizioni deplorevoli, il distacco da figure di riferimento affettivo, la rottura delle routine, il passaggio dalla condizione di “terra ferma” a quella di “erranti”, la perdita e lo sradicamento da “Itaca” sono contenuti che non possono essere ignorati da chi si occupa di tutela dell’infanzia e dell’adolescenza.
Non può essere rimandato il discorso sul benessere di bambini e ragazzi migrati, dove per benessere non si intende il soddisfacimento dei bisogni legati all’emergenza (sicurezza, alimentazione, salute fisica, abitazione), ma quelli legati alla sfera affettiva e relazionale che non possono essere ignorati dal Paese di accoglienza, spesso accantonati.
Lo stabilisce la stessa Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (1989), con i quattro principi fondamentali:
a) Non discriminazione (art. 2): i diritti sanciti dalla Convenzione devono essere garantiti a tutti i minori, senza distinzione di razza, sesso, lingua, religione, opinione del bambino/adolescente o dei genitori.
b) Superiore interesse (art. 3): in ogni legge, provvedimento, iniziativa pubblica o privata e in ogni situazione problematica, l’interesse del bambino/adolescente deve avere la priorità.
c) Diritto alla vita, alla sopravvivenza e allo sviluppo del bambino (art. 6): gli Stati devono impegnare il massimo delle risorse disponibili per tutelare la vita e il sano sviluppo dei bambini, anche tramite la cooperazione tra Stati.
d) Ascolto delle opinioni del minore (art. 12): prevede il diritto dei bambini a essere ascoltati in tutti i processi decisionali che li riguardano, e il corrispondente dovere, per gli adulti, di tenerne in adeguata considerazione le opinioni.
I bambini e gli adolescenti dei “due mondi”, sono investiti da un progetto di vita non sempre da loro scelto, ma voluto e messo in atto dai genitori o dagli adulti di riferimento. Conoscere, ascoltare e comprendere questo “progetto di vita”, offrire loro spazi di narrazione e condivisione sono passi salienti nel processo di sostegno psicologico a madri, padri e figli di una terra lontana .
La loro “Itaca” seppur non sempre conosciuta, li accompagnerà nel Paese di arrivo, e con essa si intende la cultura, i costumi e le usanze che non possono essere ignorate e fagocitate dal sistema culturale occidentale. Bisogna creare una rete servizi che fungano da “scialuppe di salvataggio”, da sostegno e da affiancamento nel loro percorso di adattamento e di crescita, in un contesto culturale che riesca a fungere da buon contenitore in ottica winnicottiana.
La condizione di vulnerabilità di ogni minore migrante può essere molto diversa a seconda di variabili individuali, familiari, gruppali, ambientali, che possono portare lo sviluppo della situazione critica in una direzione di adattamento o viceversa essere all’origine di una sofferenza psichica che impedisce lo sviluppo e il benessere psicosociale (Belhadj Kouider E et al., 2014).
Il sostegno a minori migranti si può realizzare anche offrendo formazione rivolta a insegnanti, operatori nel sociale- assistenti sociali, educatori, medici, mediatori culturali- forze dell’ordine, per incrementare le conoscenze sulle realtà culturali, e allo stesso tempo fornire strumenti per individuare, comprendere le situazioni che necessitano di interventi di supporto specifici.
L’approccio al minore migrante, però, è spesso viziato da pregiudizi molteplici che investono la società e non risparmiano la comunità scientifica (Gesualdo et al, 2012).
È bene fare un passo indietro e provare a riflettere su alcuni aspetti, che ci potranno aiutare ad indossare, per poco, i panni del bambino, dell’adolescente migrante e delle loro famiglie.
Spesso diamo per scontato il modo in cui viviamo: entrare in contatto con persone e modi di vita diversi può renderci consapevoli di vari aspetti del comportamento, del modo di relazionarci, della nostra cultura (LeVine, 1966).
Coloro che si immergono in una cultura diversa dalla propria, frequentemente sperimentano uno “shock culturale”. Le situazioni nuove che si trovano ad affrontare entrano in conflitto con ciò che hanno sempre presupposto e può essere sconvolgente riflettere sulle proprie usanze o pratiche culturali come “possibilità” anziché modi naturali di agire.
Anche se non si è propriamente immersi in un altro sistema culturali, i paragoni tra le diverse usanze possono creare senso di disagio in coloro che non hanno mai considerato le proprie certezze culturali. Molti sentono messo in discussione il proprio modo di vivere , e quello della comunità di appartenenza quando vengono a conoscenza di altri “mondi possibili”. Spesso consideriamo barbare le usanze di altri popoli, assumendo che il nostro punto di vista sia il solo a essere giusto, sensato o civile. Applichiamo costantemente giudizi di valore, dall’alto delle nostre credenze culturali, al modo di vivere delle altre persone, senza considerare il significato nell’ambito della cultura a cui fanno riferimento. Tutto ciò è una forma di etnocentrismo (Rogoff, 1993). Per esempio si tende comunemente a valutare la competenza e la bravura dei genitori secondo dettami della propria cultura.
Se in Kenya una madre dice a suo figlio: “Smettila o ti picchio”, la sua affermazione non ha lo stesso significato che avrebbe se fosse pronunciata da una madre italiana. In un contesto in cui la resistenza psicofisica è indispensabile per crescere robusti (per svolgere lavori fisici pesanti, essere preparati alla guerra o camminare per ore senza mangiare), l’uso occasionale della disciplina fisica possiede un significato assai diverso rispetto a una cultura il cui benessere fisico è solitamente dato per scontato (Rogoff, 1993).
Per dare sostegno a bambini, adolescenti e famiglie di culture diverse dalla nostra, dobbiamo superare i presupposti etnocentrici di cui parliamo: riconoscer che il nostro punto di vista è legato alla nostra esperienza culturale, non è l’unico possibile e necessariamente il più giusto. Un atteggiamento aperto, che sospenda il giudizio sulle usanze proprie e altrui, è invece necessario per iniziare a comprendere l’influenza delle tradizioni culturali sul comportamento familiare e sociale, riconoscendo in pieno la natura culturale dello sviluppo. Quando si osserva dall’esterno un sistema di significati, le usanze che lo caratterizzano possono essere giudicate inappropriate, laddove invece al suo interno acquistano significato (Rogoff, 2004).
L’integrazione del bambino migrante in una società multiculturale passa da tutto ciò.
Ecco perché la pediatria multiculturale e lo psicologo pediatrico, unitamente alle altre figure socio-educative, si incontrano nel fungere da mediatori nel processo di adattamento e crescita di bambini, genitori migranti.
Conoscere l’infanzia nelle differenti culture permette di cogliere i significati possibili che assume l’allattamento, lo svezzamento, il contatto fisico, l’alimentazione dei bambini africani, islamici, bangladesi o pakistani. Una delle tante finalità del lavoro dello psicologo pediatrico con i minori migranti e le loro famiglie è quello di leggere le tappe dello sviluppo e i bisogni ad esse associati, rilevando i possibili i campanelli d’allarme su cui poter intervenire, all’interno di una cornice culturale aperta e flessibile.
L’obiettivo per raggiungere uno sviluppo psicologico e della personalità sano ed equilibrato, dovrebbe essere basato sull’incontro fra culture, sintesi creativa, che consentirà al bambino e ai familiari di acquisire le coordinate utili a muoversi in un mondo culturale nuovo, mantenendo entrambe le realtà: quella di origine e quella di accoglienza, senza enfatizzarne una o sottovalutarne l’altra.
BIBLIOGRAFIA
Belhadj Kouider E, Koglin U., Petermann F. (2014). Emotional and behavioral problems in migrant children and adolescents in Europe: a systematic review. Eur Child Adolesc Psychiatry, 23(6):373-91.
Devi, S. 2016. Unaccompanied migrant children at risk across Europe. Lancet, 387(10038): 2590.
Gesualdo, F., Pandolfi, E., Romano, M. Crescere senza confini. Il pediatra e il bambino straniero migrante o adottato. Il Pensiero Scientifico Editore, 2012. Roma.
LeVine,R.A.(1966). Outsiders judgments:an ethnographic approach to group differences in personality. Southwestern Journal of Antropology, 22, 101-116.
Rogoff, B. et all. (1993). Cultural variation in the role relation of toddlers and their families. In BORNSTEIN, M-M- (a cura di), Cultural Approaches to Parenting. Erlbaum, Hillsdale, NJ, pp. 173-183.
Rogoff, B. La natura culturale dello sviluppo. 2004.Raffaello Cortina Editore, Milano.
SITOGRAFIA
Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, www.unicef.it
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