Site icon Valerio Di Lazzaro | Psicologo – Psicoterapeuta

Oblio: perché dimentichiamo?

Noi esseri umani siamo la somma di tutti i momenti che abbiamo vissuto, con tutte le persone che abbiamo conosciuto e sono questi momenti a costruire la nostra storia, come una nostra personale hit parade dei ricordi più belli che suoniamo e risuoniamo nella nostra mente ancora e ancora”.

Tutti noi, ciascuno a suo modo e secondo le proprie esigenze, stiamo cercando di dare una mano alla nostra memoria: consultare volumi, ripercorrere una melodia, prendere appunti o cercare di costruire delle categorizzazioni, sforzi volti ad aiutarci a rendere più rapido ed efficiente il nostro recupero delle informazioni, nel momento in cui ne avremo bisogno. Da sempre, quando si pensa alla memoria, viene in mente qualcosa che ha a che fare con dati che possono semplificare la nostra vita quotidiana: il ricordo di numeri di telefono, di date ed eventi particolari.

Ma, oltre alla memoria in senso quantitativo, si pensa anche alla capacità di sfruttare le conoscenze che abbiamo per risolvere i problemi che ci capita di incontrare quotidianamente. “Tutta la vita è risolvere problemi”, alcuni di ordinaria importanza, altri basilari per la sopravvivenza. Fin qui nulla di nuovo; siamo però consapevoli del fatto che, col passare del tempo, la memoria sbiadisce. Nell’esperienza quotidiana di chiunque, infatti, non si può fare a meno di constatare come, a volte, la memoria non sia efficace. L’insuccesso può essere temporaneo o definitivo, dimenticando completamente, oppure ricordare, in maniera confusa e del tutto insoddisfacente, concetti che erano stati studiati a fondo con dispendio di tempo e di energie (Longoni, 2000). Certo, il vantaggio della cattiva memoria è che si gode parecchie volte delle stesse cose per la prima volta, ma se per una serie di eventi sfortunati dovessimo perdere un tassello del nostro mosaico, rischieremmo di perdere noi stessi (chi non ha mai provato l’imbarazzo di incontrare per strada una persona che ci saluta cordialmente e di non riuscire a ricordare chi sia, oppure l’irritazione di non trovare la macchina che siamo sicuri di avere parcheggiato proprio in quel posto?).

La prima ricerca sull’oblio è stata condotta dallo studioso tedesco Ebbinghaus (1885-1923) che, usando se stesso come soggetto dell’esperimento, apprese un numero sterminato di liste di sillabe senza significato, per verificare quante ne avrebbe dimenticate col passare del tempo. Dimostrò che, quando si apprendono sillabe senza senso, l’oblio passa da una condizione molto rapida ad una molto più lenta, intuendo che la sua funzione fosse approssimativamente logaritmica.  Tuttavia, quando si passa da studi di laboratorio a studi naturalistici, la situazione che emerge è molto più ottimistica: si è trovato, ad esempio, che si dimentica ben poco del vocabolario e della grammatica di una lingua straniera e che si ricordano abbastanza bene facce e nomi (Longoni, 2000).

Per spiegare il fenomeno dell’oblio, molto diffusa è la teoria dell’interferenza, secondo la quale non è il tempo ad essere il fattore principale responsabile dell’oblio, bensì l’interferenza che si crea quando ricordi diversi sono associati ad uno stesso elemento. Quando l’apprendimento pregresso (passato) interferisce con il nuovo apprendimento, si parla di interferenza proattiva; quando invece è l’apprendimento successivo ad alterare l’apprendimento pregresso, si parla di interferenza retroattiva (Eysenck e Keane, 2006). La teoria può essere fatta risalire a Hugo Munsterberg nel XIX secolo. Questi aveva conservato per molti anni l’orologio da taschino in una data tasca; quando cominciò a riporlo nell’altra si ritrovava a cercare a tastoni quando gli veniva chiesto che ora fosse. Egli aveva imparato un’associazione tra lo stimolo “Che ore sono, Hugo?” e la risposta che consisteva nell’estrarre l’orologio dalla tasca. Successivamente, lo stimolo rimase lo stesso ma vi era associata una risposta diversa.

Altra spiegazione è quella del “mancato immagazzinamento”, per cui alcune informazioni vengono dimenticate in ragione del fatto che non sono mai passate nella memoria a lungo termine. Alla base di questa spiegazione vi è il concetto di consolidamento, secondo cui esistono processi biologici che rendono stabile una traccia di memoria. Nel momento in cui questi processi vengono in qualche modo contrastati, l’informazione presente nella memoria di lavoro non passa nella memoria a lungo termine e viene persa (Longoni, 2000).

Secondo Tulving (1974) esistono due tipi di oblio: l’oblio traccia dipendente, in cui l’informazione non è più presente nella memoria e l’oblio suggerimento dipendente, in cui l’informazione si trova ancora nella memoria, ma non è accessibile. Quest’ultimo tipo di oblio è stato dimostrato anche in caso di suggerimenti interni (ad es. lo stato d’animo). Le informazioni relative allo stato d’animo vengono spesso immagazzinate nelle tracce mnestiche e si verifica un oblio maggiore se lo stato d’animo al momento della rievocazione è diverso. Il concetto secondo il quale la dimenticanza dovrebbe essere minore se lo stato d’animo è uguale sia la momento dell’apprendimento che a quello della rievocazione è noto come memoria-dipendente-dallo-stato d’animo.

In un’ottica psicoanalitica, Freud ha enfatizzato l’importanza dei fattori emotivi nell’oblio. Egli sostenne che avvenimenti avvertiti come minacciosi, o causanti ansia, spesso non riescono ad accedere alla sfera della consapevolezza (che definì rimozione). Appare quindi evidente che il ricordo percorre strade molto individuali: a volte affiora alla mente qualcosa di vago e c’è chi preferisce recuperare le forme e chi i colori; a volte manca dalla memoria qualcosa che è stato rimosso al fine di difendere la fragile struttura psichica di chi è in possesso dell’esperienza dimenticata. Un ricordo famoso, che è anche l’effetto di una distorsione, è quello di Benvenuto Cellini a proposito di una salamandra. Ricorda Cellini che suo padre, per imprimergli in mente la visione di una salamandra nel fuoco, gli diede un sonoro ceffone:

“fece chiamare le sorelle e me, e, mostratola a noi bambini a me diede una gran ceffata, per la quale io molto dirottamente mi misi a piangere. Lui piacevolmente racchetatomi, mi disse così: ‘figliolin mio caro, io non ti do per male che tu abbia fatto, ma solo perché tu ti ricordi che quella lucertola che tu vedi in quel fuoco, è si una salamandra, quali non s’è veduta mai più per altri, di chi ci sia notizia vera’, e così mi baciò e mi diede certi quattrini”.

Il Cellini non dice se dopo tanti anni gli sia rimasto in mente il ricordo del ceffone piuttosto che quello della salamandra; resta il fatto che la salamandra che vive nel fuoco è una superstizione e non ha alcun riscontro nella realtà. Perciò sappiamo che Cellini non può averla vista. E allora? Si potrebbe supporre che l’emotività prodotta dal ceffone abbia rimosso il ricordo reale, lasciandovi solo un’immagine creata dallo stesso suo racconto. Ciò che rimase fu quindi l’effetto di una distorsione creata dalla fantasia o la suggestione delle parole dette dal padre?

C’è da dire che il ricordo è sempre una mistificazione. Osserva Daniel L. Schacter, che molti ricordi sono alterati sia da come sono stati inseriti nella memoria, sia da come vengono recuperati. Le disfunzioni mnestiche, ossia gli errori di memoria, fanno parte della stessa natura di cui è composta la trama del ricordo, poiché il ricordo non è il recupero di qualcosa di oggettuale, ma va visto come qualcosa che è stato manipolato prima del deposito e che viene rimanipolato nel recupero.

Qualcuno afferma che siamo i nostri ricordi; ma, l’insieme dei nostri ricordi ci restituisce veramente, e soprattutto fedelmenteil nostro passato e la nostra identità?

                                                                                                                    

                                                                                                               Simone Ferrazzo

Riferimenti bibliografici

Cellini B., La vita, Firenze, Vallecchi, 1953, p. 7.

Eysenck M. W. e Keane M. T. (2006). Psicologia Cognitiva III edizione, Idelson-Gnocchi, Sorbona.

Longoni A. M. (2000). La memoria, il Mulino, Bologna.

Schacter D.L., I sette peccati della memoria. Come la mente dimentica e ricorda,
Mondadori, Milano, 2002.

Altre fonti
La memoria del cuore, film 2012.

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